«Pran pron»: il pranzo è pronto, annuncia il maggiordomo di casa Salina, introducendo una delle scene più celebri del film Il Gattopardo di Luchino Visconti. Il cibo e la sua ritualità hanno un ruolo rilevante nel mondo creato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e sono parte dell’apparato simbolico che governa le regole non scritte della famiglia Salina. Ironiche ma ricche di dettagli sono nel romanzo le descrizioni della gelatina al rum, dell’uva inzòlia, delle aragoste, delle spigole, delle beccacce disossate, del profumo del ragù e naturalmente del leggendario timballo. Per non parlare della carrellata sull’opulenta tavola dei dolci che concludono la cena di Donnafugata, nella quale spiccano tra babà, bignè e parfait, il Trionfo di Gola con la sua gelatina di pistacchi e le «impudiche» ‘paste delle vergini’ che ricordano inequivocabilmente dei seni.
L’artefice della sontuosa cena, Monsù Gaston, cuoco di casa Salina, abilissimo nella preparazione appunto del timballo di maccheroni, è una figura che ha fondate radici storiche e che ci rimanda all’interessante ruolo dei monsù, i cuochi di origine francese, nelle famiglie aristocratiche siciliane. Del resto, per rimanere nell’ambito della grande letteratura, ne incontriamo uno, Monsù Martino, anche al servizio degli Uzeda nei Viceré di Federico De Roberto, e anche questo autore propone il cibo come un elemento che caratterizza il romanzo: sono celebri, tra le altre, le pagine in cui descrive il lavoro nelle cucine dei conventi per la preparazione dei pasti, non molto sobri, dei monaci benedettini, devoti agli arancini e ai timballi.
La stagione dei monsù ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione della cucina siciliana, così come i loro omologhi - i cosiddetti ‘monzù’ - hanno influenzato profondamente la tradizione gastronomica napoletana. Si tratta di una storia affascinante e ricca di rimandi, che si incrocia con grandi avvenimenti e trasformazioni. La cucina rinascimentale italiana godeva di grande prestigio in Europa e influenzò il percorso di quella francese, anche se non nella misura estrema descritta da alcune fantasiose ricostruzioni, forse troppo condite di orgoglio nazionale. La situazione però cambiò nel corso del XVII secolo con il progressivo aumento della credibilità della scuola francese, che peraltro si rinnovò profondamente nel XVIII secolo, anche per opera di alcuni grandi cuochi che iniziarono a insediarsi nelle case aristocratiche come François Pierre de La Varenne. Emerse una nuova generazione che promuoveva una cucina raffinata, meno incentrata sul consumo della carne e più attenta ai gusti originari degli alimenti. I legami e gli scambi di esperienza fra la Francia e i diversi territori italiani erano stretti, e si intensificarono nel 1768 con il matrimonio fra Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Austria. La nuova regina introdusse a Napoli, a partire dalla corte, l’abitudine di affidare la cucina a cuochi francesi: è dall’originale Monsieur le Chef che derivano appunto le denominazioni ‘monzù’ a Napoli e ‘monsù’ in Sicilia. Nell’aristocrazia questa novità si diffuse rapidamente e non c’era famiglia che rinunciasse a questo segno di distinzione nobiliare.
Un aspetto interessante è che la cucina proposta, partendo da una base francese, entra in contatto con i prodotti locali, con alcune ricette tradizionali, e tende presto a differenziarsi dalla cucina della madrepatria. Un esempio ci viene proposto proprio dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: gli invitati sono preoccupati perché temono che il pranzo possa essere inaugurato, come era abitudine in Francia, da un raffinato potage ‒ che loro definiscono «brodaglia» ‒ ma Monsù Gaston evita accortamente di sottoporli a questa «barbarica usanza forestiera» e fa portare in tavola il timballo.
«L'oro brunito dell'involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta […] e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio»
D’altro canto, la prestigiosa arte dei monsù contamina la tradizione locale e la cucina popolare, che viene così arricchita di nuovi elementi. Si diffondono in Sicilia il gateaux di patate, diventato ‘gatò’, lo spezzatino ‘agglassato’ o ‘aggrassatu’ dal francese glasse, i timballi, il falsomagro, che probabilmente origina dal francese farce maigre, gli involtini. E piatti tipici vengono assorbiti, con alcune varianti, come il pesce coricato o le melanzane alla parmigiana.
Allo stesso tempo anche gli stessi monsù si trasformano: i primi erano effettivamente francesi, chiamati dalla corte o dalle famiglie nobiliari che si contendevano i più qualificati e prestigiosi. In seguito, durante l’Ottocento, la maggior parte erano italiani, spesso siciliani, che seguivano le orme dei loro predecessori. Si continuava a definire ‘monsù’ il capocuoco che lavorava presso una famiglia aristocratica, anche se era palermitano, e si chiamava comunque francese una cucina che era ormai piuttosto siculo-francese.
Questa nuova generazione ottocentesca era comunque rispettata e trattata con ogni riguardo: al monsù ci si rivolgeva dandogli ‘del voi’ e nei palazzi della nobiltà palermitana era presente, come attestano numerosi documenti notarili, il ‘quarto del monsù’, un appartamento riservato. Il pagamento era di buon livello; alcuni avevano uno stipendio fisso, altri erano pagati a forfait, a partire dal numero delle portate, altri avevano accordi che consentivano addirittura di utilizzare le cucine anche per una propria ulteriore clientela. Il declino, sia pur gattopardescamente lento e trasformista dell’aristocrazia dopo l’Unità e soprattutto nel Novecento, ha fatto tramontare questa istituzione, che rimane dunque legata al XVIII e XIX secolo. Il lascito però di questo incontro fra culture e tradizioni è ancora vivo, nella lingua e sulle tavole, con accostamenti e sapori che resistono nel tempo.