La fotografia di paesaggio non è mai solo documentazione: che si proponga di catturare la bellezza di un ambiente naturale o urbano, o di mostrarne il lato migliore, suggestivo o insolito, riesce sempre a stupire e a emozionare, rivelando dettagli che sfuggono al primo sguardo, offrendo una prospettiva che racconta storie nascoste. La fotografia di montagna in particolare si può porre talvolta come esposizione di un itinerario escursionistico o di un particolare evento, che magari riguarda l’alpinismo, ma il racconto può assumere anche un valore diverso, di documento o di denuncia, ad esempio, del degrado ambientale o delle conseguenze in alta quota del riscaldamento globale.
La montagna però suggerisce anche altro. La fotografia allora rimanda al limite, a un ‘oltre’, che evoca senza inquadrarlo, poiché non può essere messo a fuoco. LUMEN, il Museo della Fotografia di Montagna, collocato sulla cima di Plan de Corones, in Alto Adige, con i suoi grandi spazi espositivi, rappresenta un’occasione unica per immergersi in queste visioni sempre coinvolgenti e ricostruire origine e percorso di questa particolare forma d’arte.
Nell’unicità del luogo, una proposta eccezionale, la mostra Le pioniere della fotografia di montagna, in corso fino al 9 novembre 2025, dedicata a quattro straordinarie fotografe, fra le prime a cimentarsi su questa strada davvero in salita, in tutti i sensi: Elizabeth Whitshed Main, Annie Smith Peck, Una May Cameron, Gertrude Bell. Una mostra consacrata alle loro immagini, ma anche alla battaglia che hanno dovuto intraprendere contro discriminazioni e pregiudizi. Per una donna, nata come tre di loro nel XIX secolo, scalare le montagne era considerata una stravaganza pericolosa e innaturale; ma anche la fotografia risultava per il senso comune poco consona al genere femminile, per il peso dell’attrezzatura e per la pericolosità degli agenti chimici che si impiegavano. Succedeva quindi che alcune delle fotografe di montagna, pensando di non essere prese sul serio, pubblicassero i loro scatti utilizzando uno pseudonimo, a volte il nome del marito: una prassi che rende difficile adesso ricostruire la loro opera.
Gli ostacoli più grandi non erano precipizi e pendenze ma i confini consolidati dei pregiudizi di genere. Elizabeth Whitshed Main (1860-1934) di origine irlandese, è stata alpinista, fotografa, regista, scrittrice, e per tutta la vita ha coltivato queste sue passioni, collegandole fra loro. All’età di ventuno anni si trasferì in Svizzera e lì iniziò a praticare l’alpinismo, affrontando diverse difficili scalate, tra cui il Monte Bianco, sempre accompagnata dalla sua macchina fotografica. Spesso veniva a sua volta fotografata; in queste occasioni appariva sempre in gonna, per evitare critiche e scandali, ma poi si cambiava e affrontava le salite con i pantaloni. Fu anche una promotrice dell’alpinismo femminile, diventando presidente nel 1907 del Ladies Alpine Club. Sicuramente favorita da una buona disponibilità di denaro ereditato dalla famiglia, condusse una vita intensa: raggiunse per prima circa venti cime, scrisse sette libri sull’alpinismo, scattò centinaia di foto in alta quota, girò dieci film sulla vita in montagna, per cui può essere considerata una delle prime donne regista della storia. Inoltre, si sposò tre volte, ebbe un figlio e verso la fine della sua vita scrisse un’autobiografia dal titolo emblematico Day in, Day out.
Annie Smith Peck (1850-1935) raggiunse una certa notorietà come alpinista, come fotografa e per il suo impegno a favore dell’emancipazione femminile. Una delle sue battaglie riguardava proprio il rifiuto di indossare la gonna durante le scalate. L’uso dei pantaloni era motivo di scandalo e per mantenere il punto rischiò anche l’arresto. Una parte importante della sua carriera sportiva ebbe come teatro le montagne dell’America Latina; la vetta settentrionale dell'Huascarán sulla Cordillera Blanca, in Perù, è stata chiamata Cumbre Aña Peck in suo onore. A sessantuno anni, scalò una delle vette del monte Coropuna e una volta completata l’impresa espose uno striscione con la scritta «Voto alle donne». Anche lei scrisse un’autobiografia in cui è contenuta una frase che racchiude la sua vita di infaticabile viaggiatrice: «La mia casa è dove si trova il mio baule».
Sicuramente Gertrude Bell (1868-1926) è più nota per il suo ruolo diplomatico e politico in Medio Oriente, a fianco di Lawrence d’Arabia, che per il contributo che pure ha dato alla storia della fotografia; del resto, il suo apporto fu rilevante nella nascita dell’Iraq e nel disegno di nuovi equilibri in quell’area dopo la Prima guerra mondiale. In gioventù, prima di immergersi in quello che Rudyard Kipling chiamò ‘il Grande gioco’, si dedicò però all’alpinismo e scalò diverse montagne, tra cui il Cervino. Un’altra passione, che invece non abbandonò mai è quella della fotografia, con cui documentava i suoi viaggi; ha lasciato un’eredità di oltre 8000 scatti.
È invece figlia del Novecento Una Cameron (1904-1987), alpinista scozzese che ha vissuto però molti anni in Italia, a Courmayeur, scalando più volte il Monte Bianco. Anche lei grazie a un’origine familiare benestante ha potuto dedicare la vita ai suoi interessi, lasciando immagini e diari dei suoi viaggi e delle sue imprese. Nonostante abbia vissuto in un clima in parte diverso rispetto alle altre fotografe, anche Una era criticata perché portava i pantaloni, fumava la pipa e sfidava le convenzioni.
Queste quattro donne, pur con biografie diverse fra loro, ci mostrano come, se si è animati da passioni autentiche, gli ostacoli possono essere superati: le loro fotografie non ci raccontano solo la montagna, ma anche gli ardui sentieri, tutti in salita, che i percorsi di emancipazione devono affrontare per raggiungere nuove vette.
Crediti della foto
Courtesy of Kulturverein Oberengadin, fotografia di Elizabeth Main.