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Uno scandalo veneziano

Penso che le cose non esistano. Un bicchiere, un uomo, una gallina per esempio, non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, sono soltanto la verifica delle possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina. Perché le cose possano esistere bisognerebbe che fossero eterne, immortali. Solo così cesserebbero di essere unicamente la verifica di certe possibilità e diverrebbero cose esistenti.

Gino De Dominicis (Lettera sull’immortalità del corpo, 1969)

 

Gli archivi della Biennale di Venezia, punto d’incontro degli sviluppi dell’arte contemporanea a livello internazionale, sono ricchi di storie e di eventi che hanno segnato momenti di svolta nel panorama artistico o sono stati oggetto di fertile discussione. Un’opera che innescò riflessioni e polemiche sul significato dell’arte, e quindi della vita umana stessa, è Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile), proposta da Gino De Dominicis durante la XXXVI Biennale nel 1972.

Nella stanza a lui dedicata in Biennale, De Dominicis esponeva un progetto complesso, che constava di tre sue opere: il Cubo invisibile; la Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968) e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra. Ma l’elemento che dava unitarietà e consistenza al tutto era la presenza di Paolo Rosa, un ragazzo con sindrome di Down intento a osservare le tre installazioni, seduto su una sedia, di fronte al pubblico. In questo modo gli spettatori guardavano lui che guardava, con diversa percezione, creando una magica perturbazione. Lo sguardo di Rosa era per De Dominicis indispensabile per creare un’occasione di esistenza e quindi, nella sua visione, di immortalità, di ‘oltrepassamento’ della normalità e del tempo. In quel 1972 il messaggio fu intercettato da pochi: l’opera fu ritirata dopo qualche ora e l’artista fu denunciato per sottrazione di incapace, anche se poi assolto.

I giornali e anche molti intellettuali sovrapposero allo scandalo dell’immortalità e al suo effetto disturbante, ampliato dalle risate che accompagnavano l'incontro con l’opera, accuse morali: per aver sfruttato e manipolato un «mongoloide» (questo era il termine usato nei titoli dei giornali che gridavano alla vergogna); per la presenza di una svastica disegnata sul muro, con intenti che nulla avevano di ‘nazista’, e per l’esposizione del diverso, che in realtà fu oltraggiato soltanto da quelli che si posero come suoi difensori, piuttosto restii ad accettare un rapporto paritario con la sua diversità.